Quando fece il suo ingresso sul Centrale del Roland Garros, il 5 giugno 1989, Michael Chang provocò negli spettatori una strana sensazione di déjà-vu. Di fronte al numero 1 del tennis mondiale, il ceco Ivan Lendl, il sedicenne cino-americano, quindicesima testa di serie, ricordava l’omino in camicia bianca e pantaloni scuri, una borsa della spesa nella mano sinistra e una giacca nella mano destra, che poche ore prima, a Pechino, era rimasto in piedi di fronte a dei carri armati, arrestandone la marcia. La notte precedente, quei tank avevano invaso piazza Tienanmen e soffocato nel sangue la protesta che studenti, intellettuali e operai inscenavano da alcune settimane contro il governo cinese. L’isolata contestazione dello sconosciuto finì nei notiziari di tutto il mondo.
Chi osservò Lendl e Chang prepararsi non poté fare a meno di pensare che il destino del giovane fosse segnato come quello dei suoi coetanei che avevano osato contestare il Pcc. Il più forte tennista del pianeta aveva vinto in gennaio gli Australian Open e altri quattro tornei dei sei cui aveva partecipato.
I suoi genitori, Joe Chang e Betty Tung, erano arrivati negli Stati Uniti in periodi diversi. Lui nel 1959, lei sette anni dopo. Erano stati presentati da amici comuni e l’amore era sbocciato presto. Venivano da Taiwan.
Michael nacque nel 1972 e con il tennis come attrazione precoce. Si fece strada nei tornei giovanili, in cui incontrò un disinvolto ragazzo di Las Vegas, di padre iraniano, Andrè Agassi.
Nel 1989, di Agassi già parlavano tutti: era una star in erba, rompeva tutti i canoni e in campo era geniale e bizzarro. Chang, invece, lo conoscevano in pochi. Suscitava curiosità, più che altro: aveva meno di diciassette anni, un forte senso del dovere, un fisico da impiegato, più che da atleta.
A Parigi conquistò il “pass” per gli ottavi di finale.
L’appuntamento sarà, dunque, con Lendl, una macchina che aveva imposto il proprio comando in tre edizioni e che aveva fatto del gioco da fondocampo uno strumento di distruzione dell’avversario. La potenza di fuoco che Lendl riusciva a sprigionare era sbalorditiva. Non avrà vinto sempre, ma nella ristretta cerchia dei tennisti capaci di sconfiggerlo c’erano i nomi di pochi campioni.
Restava da capire solamente se a impacciargli la strada verso il trono di Parigi sarebbe stato Boris Becker o se il compito sarebbe toccato a Stefan Edberg. Loro, erano quelli che potevano fermare Lendl. Di sicuro, non Chang, di cui si dicevano sì delle buone cose, ma che suscitava, negli osservatori, più simpatia che fiducia.
Chang aveva del talento, il suo era un gioco essenziale e non mancava di spunti pregevoli, ma reggere allo strapotere di Lendl andava oltre i suoi mezzi. Anche nell’impatto visivo la differenza balzava agli occhi: mentre Lendl era alto e aveva delle braccia e delle gambe come delle pale, Chang era mingherlino. I due si erano già affrontati poco prima, in un match di esibizione a Des Moines, nello Iowa, e Lendl aveva vinto con ovvia facilità. Dopo aveva preso da parte Chang e gli aveva dato delle spiegazioni sull’andamento dell’incontro:
“Sai perché ti ho battuto? Perché non hai qualche colpo in particolare che possa farmi male.
Non il servizio, non la seconda palla che è poco potente. In questo modo posso fare praticamente quello che voglio quando ci incontriamo e batterti quindi con facilità”.
Involontariamente, aveva dettato a Chang la formula che l’avrebbe portato a subire, pochi mesi dopo, una delle sconfitte più cocenti della sua carriera.
I primi due set col cinese made in Usa, scivolarono via come un cucchiaino di creme caramel.
La convinzione pro Lendl venne irrobustita quando Chang manifestò una serie di acciacchi fisici tali da metterne in dubbio la permanenza sul campo.
Dal terzo set di quella partita che tutti davano per finita iniziò qualcosa di davvero indimenticabile. Chang, con il suo stile essenziale, non si fece più schiacciare dalla cinica organizzazione di Lendl.
Gli resistette e gli rispose con le sue stesse armi, come in un gioco di specchi:
respingendo botta su botta, fece correre il numero 1, gli portò via un punto dopo l’altro. Il 6-3 con cui mandò la sfida al quarto set fece sussultare, ma in molti crederono che fosse solo una variabile impazzita in un’equazione di cui era già noto il risultato finale.
Al contrario, Chang era appena all’inizio della sua camminata nella gloria. Il suo fu un capolavoro tennistico, ma anche e soprattutto psicologico, in uno sport in cui la mente è l’unica costante da cui non si può prescindere. Lo sforzo fatto per vincere il terzo set gli chiese di pagare un tributo, con i crampi che cominciarono ad affliggerlo, ma Michael non si lagnò, anzi: sfruttò la cosa a proprio vantaggio, allungando a dismisura le pause di gioco.
Mentre Lendl era in piena lotta contro i suoi dèmoni, Chang cadde vittima dei crampi e lo scontro si fece epico. Per niente intimorito dalla prestigiosa ribalta e dal furore di “Ivan il Terribile”, il giovanotto del New Jersey cominciò a ingurgitare ettolitri di acqua e banane in quantità per reidratare il fisico e fornirgli il necessario apporto di potassio. Ai cambi di campo, evitava financo di sedersi per scongiurare il rischio di non potersi rialzare: camminava avanti e indietro sulla linea del corridoio.
Lendl si innervosiva: come se un chip del suo computer non sapesse interpretare un inaspettato algoritmo. Il pubblico di Parigi faticava a non parteggiare per Chang. E, poco per volta, il muro di Lendl cedette. Il quarto set era, di nuovo, per Chang: 6-3.
Si andò al quinto, e a questo punto chiunque si rese conto che poteva avvenire qualsiasi cosa, ma in pochi riuscirono a crederci sul serio.
Chang andò al servizio. Il difetto del suo repertorio, per una matta idea che gli aveva suggerito Agassi, si tramutò in un colpo vincente. Michael battè da sotto, come nel gioco dei racchettoni, e sorprese Lendl, ormai andato in cortocircuito. Nervoso, il campione non ne azzeccò una. A forza di irritanti pallonetti, miracolosi vincenti e rapide sessioni di stretching, Chang si issò sul 2-0 nel set decisivo. Lendl non si arrischiò ad attaccare quelle palle prive di peso e, se lo faceva, affondava in rete volée elementari. Il volto scavato dalla tensione, i capelli incollati in testa dall’incessante passaggio dei polsini lunghi come l’avambraccio, lo facevano assomigliare a un Buster Keaton confuso. Proprio in quel frangente, si sarebbe appreso anni dopo, Michael era sul punto di abbandonare: fu invece sospinto da un’irresistibile forza. Profondo credente, in campo si rivolgeva spesso al padreterno chiedendo aiuti fisici si convinse di continuare. Aveva visto le scioccanti immagini provenienti da piazza Tienanmen e sentì di avere l’occasione di portare un sorriso sulle facce dei cinesi di fronte a Taiwan in un frangente in cui c’era poco da sorridere.
Chang scattando nel punteggio, non smise di utilizzare le soste per dilatare il tempo della partita.
Lendl, esasperato, chiese l’intervento dell’arbitro, picchiettando il dito sulla tempia per dire che quel tipo che aveva di fronte era pazzo.
Pure le titubanze degli spettatori scemarono: il tifo per Chang era ormai calcistico. Ma c’era un’altra mossa che Michael aveva nel bagaglio da Houdini che si era portato al Roland Garros. Una di quelle trovate da mago provetto, o da sfrontato ragazzetto. Il set decisivo diventò una piecès del teatro dell’assurdo.
Lendl lo scoprì quando andò al servizio e doveva recuperare il match-ball per Chang, avanti per 5-3 e 15-40. Sbagliò la prima palla. Riprese posizione e, d’incanto, vide l’altro che saliva sulla linea a breve distanza dal rettangolo di battuta!
Ancora Lendl reclamò con l’arbitro, mentre lo stadio esplose in risate perché non c’era nessun regolamento che vietasse di compiere un gesto del genere. Chang non si muoveva. Vide Lendl caricare, colpire con la racchetta la pallina, che andò via veloce, ma toccò il nastro, si impennò, finì fuori: 6-3!
4-6;4-6;6-3;6-3;6-3 il punteggio finale di questa lunghissima partita durata 4 ore e 38 minuti.