Drinn drinn drinn
Carlo – Uonto, cioè pronto, chi è?
Lallo – Sono io Carlè, sono Lallo.. (Tarallo ndr.)
Carlo – Ma che ca(bip)zo di ora è?
Lallo – Le tre Carlè, ti ho svegliato?
Carlo – Sì certo che m’hai svegliato sono le tre di mattina: mica sono tutti come te che scrivono e lavorano solo di notte. Insomma che c’è?
Lallo – Ho visto che ancora non hai mandato l’articolo!
Carlo – Ma dico mi chiami alle tre di mattina per dirmelo?
Lallo – Carlè, io stanotte devo partire, devo andare in Kurdistan a recuperare Erasmo che è stato arrestato, ho pure i soldi della cauzione: devi pensarci tu alla rivista. Per caso hai già pensato a qualcosa da scrivere?
Carlo – Lo sapevo che prima o poi se lo sarebbero bevuto! Io stavo pensando di scrivere qualcosa sulla musica, Hard Rock casomai….
Lallo – Ma quale Hard Rock Carlè, i nostri lettori sono intellettuali, non amano quella robaccia che piace a te e che spari a palla quando vai in giro in macchina col finestrino tutto abbassato, col braccio di fuori, la sigaretta e gli occhiali scuri. Se proprio devi scrivere di musica scrivi….
che so…. di Bob Dylan….
Carlo – Bob Dylan? ma che palle Lallo! Bob Dylan è uno stracc(bip)zzi!
Lallo – Allora scrivi di Joan Baez….
Carlo – Oddio, ok ok scrivo di Bob!!
Lallo – Mi raccomando, quando torno voglio trovare un bell’articolo su Dylan, non fare come tuo solito, che quando non ci sto io fai come c(bip)zo te pare!
Carlo – Ok Nostromo promesso! Ciao Lallo, buon viaggio, salutami Erasmo.
Lallo – Te lo riporto semmai… Ciao Carletto
CLICK.
Dannato Tarallo!!
Devo farmi venire un’idea per scrivere un articolo su Bob Dylan, una storia su Bob Dyl…, una storia su Dob William, una storia su Tob………..
zzzzzzzzzz zzzzzzzzzz zzzzzzzzzz
***********
Roma, 22 Febbraio 1973
Drinn drinn drinn
– Pronto chi è?
– Ciao Carlè sono Stefano
– Ciao Ste’ che fai, che mi dici?
– Senti Carlè, a mia madre hanno regalato due biglietti per il concerto di domani al Palasport, ti passo a prendere alle 8 col motorino e andiamo, ok?
– Ca(bip)zo, non so se mia madre mi fa uscire di sera dopo cena….
– Chiediglielo no?
– No, no meglio di no. Glielo dico domani così la prendo di sorpresa.
– Ok a domani allora.
Roma, 23 Febbraio 1973 ore 20,00 di sera
zut… zut… zut…
– Chi sarà a quest’ora??? chi va a rispondere al citofono??
– È Stefano mamma, è venuto a prendermi: andiamo a un concerto al Palasport.
– Ma quale concerto e concerto! In mezzo a tutti quei drogati: non se ne parla proprio!
– Mamma io vado.
– Dovrai passare sul mio corpo per andarci.
– Ok mamma distenditi, sto uscendo.
Uscii velocemente sbattendo la porta e fischiettando per non sentire le urla di mia madre.
A passo svelto mi incamminai per il giardino condominiale, poi mi fermai a controllare se avessi preso tutto:
Sigarette, tre pacchetti: ok
chiavi: ok
accendino: ok
cartine: ok
fumo: ok
“Benone, ho tutto”
E via con passo spedito.
Sdang
Feci scattare l’interruttore del cancello pedonale, di fuori c’era Stefano. Lo chiamavamo il Conte, per via della sua aria aristocratica.
Era seduto sul motorino, un Moto Morini Corsarino zz50, serbatoio color arancio/oro, manubrio a corna di bue, marmitta a trombone, carburatore Dellorto da 15 e manopola del gas Superspeed Daytona:
una meraviglia, il mio sogno!!
– Bella Cà, hai preso l’erbetta?
– Sì certo, tu ti sei ricordato i biglietti?
– Eccerto!
– Siamo a cavallo, annamo daje
Il rombo del Corsarino per le strade semideserte della Roma anni ’70 alle 8 di sera, il vento fra i miei capelli lunghi e ricci, la brace della sigaretta che volava dappertutto pure dentro la sciarpa, un freddo cane… Ma stavo esplodendo di gioia!!
Era la prima volta che andavo di sera a vedere un concerto.
Arrivammo al Palasport, all’Eur.
C’era un sacco di gente, tutta davanti ai cancelli ancora chiusi. Legammo il Corsarino come un salame con due catene ad un albero ed al lampione e ci incamminammo verso le entrate.
L’atmosfera era stupenda, il palazzone brillava, tutto illuminato e poi gente dappertutto, tutti colorati, coi capelli lunghi, tutti più grandi di noi.
Molte facce parevano un po’ sconvolte, fiutavamo scie di erba, marocchino, libanese, nepalese, afgano, pachistano e di tutti gli altri orienti possibili.
Musica a palla proveniva dal palazzo per via delle prove audio e luci.
Insomma eravamo ultraeccitati. il Conte tirò fuori dalla borsa di Tolfa due bottiglie di birra che incominciammo a sgargarozzarci fra una tirata di fumo e l’altra.
“Carletto – fece Stefano – ora ti spiego come si fa: noi abbiamo i biglietti della gradinata, ci andiamo a mettere vicino alla balaustra e appena spengono le luci saltiamo di sotto nella platea e corriamo sotto al palco”.
Erano le nove quando finalmente aprirono i cancelli. Ci mettemmo in una lunghissima coda estenuante in mezzo alla moltitudine colorata e chiassosa, e piano piano seguimmo la fila. Mi controllarono il biglietto e… via dentro.
Il Palazzo dello sport, grande, circolare, tutto vetri, è bellissimo, ma notoriamente ha una acustica pessima.
All’interno tutte le luci erano accese la musica del sound check era ancora molto forte.
Ci andammo ad appostare vicino alla balaustra della gradinata: la platea era solo un paio di metri sotto di noi.
L’interno del palazzo era avvolto in una densa nuvola di fumo. Ad un certo punto la musica si fermò:
ecco!
Si spensero di colpo le luci e piombammo nel buio.
“Ora! – disse Stefano dandomi una pacca sulla spalla – Dai!”
Ci arrampicammo sul parapetto, poi ci calammo con le mani e… giù: un salto nel buio!!!
Spciacc!
Saltai addosso ad un tizio che stava sdraiato per terra.
“Ca(bip)zo, Ca(bip)zo. Ca(bip)zo!!!”
“Scusa ti ho fatto male?”
Nella penombra intravidi la sua figura: non si muoveva.
Lo scossi, “Aoo te sei fatto maleeeee???”
“Niente… è morto”, pensai… Poi si mosse un poco e con un gesto mi mandò affanculo!
“Fiùù, meno male è vivo, è solo strafatto!”. Poi di corsa sotto al palco.
Stavamo nelle primissime file, eravamo stati velocissimi nel fare ‘sto giochetto; in tanti lo avevano fatto e da che era vuoto, li davanti al palco, ora c’era un sacco di gente.
C’era un gran brusio e l’enorme nuvola di fumo che troneggiava sopra le nostre teste. Si vedevano solo i rossi delle sigarette e delle canne che si accendevano come luci di Natale tutte intorno…
D’improvviso il silenzio calò su tutto il Palasport.
Tre potenti zappate
su una chitarra elettrica a miliardi di decibel, un tuffo al cuore, un accecante faro si accese illuminando il palco a giorno:
eccoli finalmente!
Le note erano quelle di “Tomorrow’s Dream”,
erano loro sì, erano…
I BLACK SABBATH!!
Il pavimento tremava e tutto attorno era un saltare scomposto, un gridare liberatorio.
Le lunghe file e l’attesa svanite in un colpo: era un pezzo nuovo quello, preso dall’album che stavano presentando in questo tour, un vinile rimasto nella storia e amato da tutti i rockettari, sia per la bellezza della musica che per la fantastica e indimenticabile copertina:
il “Volume 4”.
Subito dopo fu la volta di “Sweet Leaf”, titolo molto ammiccante, un brano da noi ben conosciuto preso dall’album “Master of reality”.
Seguì “War Pig”, tratto dal mitico album “Paranoid”, con quel suo incedere lento e marcato, spezzato da un tempo sincopato:
la voce di Ozzy era accompagnata da tutti noi, a squarciagola, e seguita nei continui cambiamenti di ritmo.
Dietro al palco troneggiava una montagna altissima di casse acustiche e amplificatori, una vera e propria torre.
Il bassista Geezer Butler, coi capelli rossi, riccissimi e lunghissimi, tutto vestito di pelle nera con un vistoso fulmine giallo piazzato sui pantaloni, s’indiavolava con un basso martellante, correva fino al limite del palco proprio davanti i nostri occhi, poi inchiodava con i tacchi degli stivaloni sul bordo e indietreggiava di nuovo, veloce, fino alla alta torre, le dava una botta col culo e tutta la pila di casse ondeggiava, sembrava stesse per caderci addosso. Poi ripartiva.
Il batterista Bill Ward, sudatissimo, pestava come un forsennato sulla batteria, sembrava la volesse distruggere.
Ozzy Osbourne, il famoso cantante pazzo, si avvinghiava all’asta del microfono e ci si attorcigliava intorno.
In tutto questo gran casino, il chitarrista mancino, Tony Iommi, restava immobile.
La sua chitarra sparava miliardi di note a tutto volume, ma lui rimaneva assolutamente fermo: non si spostò neanche di 2 centimetri in tutto il concerto.
A questo punto vorrei aprire una parentesi su quest’ultimo personaggio, chitarrista e leader indiscusso della band inglese.
Tony Iommi nacque in Inghilterra da genitori emigrati dalla provincia di Frosinone (questo l’ho scoperto poco tempo fa!!).
Tony e Ozzy durante il periodo della scuola, a Birmingham, non si sopportavano: appartenevano a due bande rivali di “ragazzi di strada”.
Le loro strade però si incrociarono quando Tony vide, in un negozio di album in vinile, il seguente annuncio:
“Ozzy Zig cerca gruppo. Possiede amplificazione propria.”
Da quell’incontro nacque il nucleo musicale di quelli che, di li a poco, nel 1969, sarebbero diventati i “Black Sabbath”, considerati da molti critici i pionieri del rock heavy metal, assieme ai Led Zeppelin.
Il nome Black Sabbath fu scelto da Geezer, un chitarrista diventato poi bassista per l’eccesso di offerta nel ruolo.
Tirò fuori quel nome da un film di Mario Bava che aveva appena visto al cinema. Il titolo originale italiano era “I tre volti della paura”, ma nella versione inglese era tradotto appunto col futuro nome del gruppo.
Nella storia dei Black Sabbath si può rintracciare una curiosità che forse non tutti conoscono:
Tony Iommi lavorava in una piccola officina di riparazione di macchine da scrivere e all’età di circa diciotto anni ebbe un brutto incidente con una pressa.
Perse le falangi superiori del dito medio e dell’anulare della mano destra.
Venne ricoverato in ospedale e dopo svariati ed inutili tentativi di riattaccare le parti amputate venne dimesso dopo un mese di degenza.
Per un appassionato chitarrista come lui, quello fu un colpo tremendo, in seguito al quale cadde in un periodo di profonda depressione.
Si interessò ad un musicista, il grande jazzista Django Reinhart che come lui, per colpa di incidente, aveva due dita atrofizzate.
Ma riusciva a suonare, e suonava da Dio!
Così il giovane chitarrista si fece costruire delle protesi in plastica con cui ricominciare a suonare.
Tony Iommi è stato sempre un attivo ricercatore di nuovi suoni e tecniche. Una delle sue prime chitarre fu una “Fender Stratocaster” mancina, adoperata per molti esperimenti: la smontava e rimontava, inserendo al suo interno lamine di metallo per modificarne il suono.
Progettò anche dei pickup personalizzati e utilizzò corde sempre più leggere.
Sua è stata anche l’idea della chitarra a 24 tasti, ora usata universalmente.
È stato anche onorato dal noto brand “Gibson” nel 1997 con la produzione in serie del suo modello personalizzato di pickup per chitarre, griffato “Tony Iommi series”.
Ma torniamo alla sera torrida del concerto.
I Sabbath fecero “Snowblind” dall’ultimo album, e poi la famosissima “Iron man”.
Suonarono ancora quattro brani del nuovo LP, poi, dopo un grandissimo solo di chitarra, partì la travolgente “Supernaut” seguita da un potentissimo assolo di batteria.
Il Palasport ormai era una bolgia, sopra e sotto il palco.
La musica si fermò per un attimo e subito riprese di nuovo “Paranoid”…
Fu il delirio:
c’era chi piangeva, chi si abbracciava, chi si baciava, chi ballava, chi saltava, chi si spogliava, chi strisciava per terra, chi vomitava…
Insomma un girone dantesco.
Quando uscimmo, alquanto frastornati, eravamo tutti come fratelli, abbracciati a degli sconosciuti per rivivere i momenti più magici del favoloso concerto che avevamo appena sentito.
Indugiammo un po’ fuori, per finire le sigarette e per far scendere l’adrenalina.
Quello era stato uno dei concerti più belli della mia vita, forse anche perchè era il primo.
Ritornammo a slegare il motorino e ci avviammo verso casa.
Il rumore del trombone del corsarino scoppiettava nelle vie sempre più deserte di una Roma anni ’70.
Noi ce la godevamo, col vento fra i capelli, bagnati di sudore, con le orecchie che rombavano ancora e la brace dell’ultima sigaretta che volava dappertutto tranne che sulla sciarpa,
che naturalmente avevo perduto.
Un freddo cane ma una gioia immensa.
****************
Scusa Lallo,
so che ti infurierai quando leggerai il mio pezzo. C’ho provato, ho provato, giuro, a scrivere qualcosa su Bob Dylan. Ecco guarda:
“Bob Dylan, nato con il nome di Robert Allen Zimmerman (Duluth, 24 maggio 1941). È un cantautore e compositore statunitense.
Compose la famosa, anche se piuttosto stucchevole, “Blowin’ in the Wind”.
Il 13 ottobre 2016 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura, ma lui non è andato a ritirarlo.
Nel gergo comune, o per lo meno, nel nostro, si usa dire “sembri Bob Dylan” facendo capire che uno suona abbastanza male sia l’armonica a bocca che la chitarra, che canta con voce nasale, e che pare sia anche un po’ palloso“.
Vedi, te l’ho detto, io ci ho provato.
Ma non mi entusiasmava, non mi era venuto bene e non mi pareva giusto nei tuoi confronti utilizzarlo.
Tutto qua.
Nato lo scorso millennio in quel luogo che, anche da Jovanotti, è definito l’ombelico del Mondo, Klaus Troföbien alias Carlo De Santis è ritenuto un vero cultore ed esperto di filosofia e costume degli anni 70/80.
È un ardente tifoso della squadra di calcio della Roma, ma non di questa odierna semiamericana e magari presto cinese, ma di quella di Bruno Conti, Ancellotti, Di Bartolomei, di quella Roma insomma che allo stadio ti teneva 90 minuti in piedi e 15 minuti seduto; è inoltre un collezionista seriale di oggetti vintage che vanno dalle cartoline alle pipe, dalle lamette da barba ai dischi in vinile.
I suoi interessi sono la musica pop rock blues psichedelica anni ’70/’80, la fotografia, la cultura hippie, i viaggi, la moto, il micromondo circostante.
Grazie ad una sua fantasmagorica visione è nata Latina Città Aperta, della quale è il padre, il meccanico e il trovarobe.
Politicamente è stato sempre schierato contro.
Spiritualmente, umilmente, si colloca come seguace di Shakty Yoni, space wisper di Radio Gnome Invisible.
Odia rimanere chiuso nell’ascensore.
Da qui la spiegazione del suo eteronimo.
Un pensiero criticabile ma libero, una mente aperta a 359 gradi.
Ma su quel grado è intransigente.