La filosofia del cane
Mi sorprese una mattina mentre facevo una passeggiata con la mia nuova famiglia fra campi, cascate, pecore e cani.
Rimasi folgorato sulla via di Priverno, lo ricordo benissimo: fu per me un’esperienza mistica.
Ma andiamo con ordine e partiamo dal principio.
Come quasi tutte le domeniche mi stavo recando a Porta Portese.
Colleziono e vendo un sacco di cianfrusaglie e il mercato romano è per me una vera miniera di scoperte.
La mattina era fredda, avevo parcheggiato la moto vicino alla stazione di Trastevere e mi stavo incamminando verso la parte “alta” del mercato delle pulci, quella a Piazza Ippolito Nievo dove si possono trovare ancora cose interessanti.
Fermata d’obbligo ai soliti banchi con i vestiti usati, rapida occhiata e poi via di nuovo, puntando verso il famoso bar “Alari” per la colazione.
Caffè al ginseng bello caldo e una danese, quella pasta schiacciata con la crema e (in questo caso) la marmellata di visciole con due belle ciliegione al centro.
Una vera delizia. Cominciai a mangiarla ai lati per tenermi il centro alla fine e cominciai un lavoro di cesello degno del miglior intarsiatore di ebano.
Uscii dal locale e mi incamminai col mio prezioso e gustosissimo fardello verso la piazza alta. Ormai la crosta laterale era stata tutta smozziconcellata: ne rimaneva solo una striscetta di circa un centimetro che tenevo avidamente tra il pollice e l’indice.
Arrivato il momento del tanto desiderato boccone finale, aprii per benino la bocca per ricevere il prezioso cuore superdolce e…
SPLAT!
Come SPLAT????
Le mie mandibole si erano richiuse ed avevano addentato l’aria.
PORCA PUTTANA: era caduto sull’asfalto, naturalmente.
Per l’infallibile legge di Murphy, la crema ricoperta dalla marmellata e sormontata dalle due splendide ciliegie era finita proprio a contatto col terreno.
Il mondo intorno a me si fermò improvvisamente, immerso in un silenzio irreale e il mio sguardo si fissò disperato sul cuore di danese che giaceva, ormai privo di senso, sulla strada.
Vidi molte persone intorno a me che avevano assistito attonite al terribile incidente e che si allontanavano mandandomi segnali di solidarietà o nascondendo sorrisetti odiosamente beffardi.
Mi rimaneva in mano solo il piccolo centimetro di crosta che mi era servito come infame manico, o forse come trampolino di lancio
Rimasi basito a pensare se convenisse tornare indietro e prenderne un altra o piuttosto accettare la situazione ed imparare per il futuro a gestire con maggior professionalità pesi ed appoggi.
Decisi per la seconda, dicendomi fra me e me: “Così impari e la prossima volta starai più attento”.
Di pessimo umore mi incamminai come un “death man walking”, mentre nella mia mente frullavano frasi come: “Lo sapevo, lo dovevo immaginare, te l’avevo detto, come ho fatto a non pensarci prima, ben mi sta”, mescolate a proverbi del tipo di “Chi troppo vuole nulla stringe”; “Sono rimasto con un pugno di sabbia in mano! O di mosche, o di farina, o d’acqua oppure di aria o meglio ancora, dell’anima delli mortacci mia!!!
Mi venne anche in mente ”Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” e il fatto che io, fino all’età di 18 anni, avendo capito male le parole la prima volta, ero sicuro che si dicesse “al LARGO” e immaginavo quindi la povera gattina che nuotava disperata nel mare per poi probabilmente essere inghiottita dai flutti.
Mi uscì un malinconico sorriso.
Alcuni anni dopo, in una fresca giornata di primavera
Camminavamo con la mia nuova famiglia (la mia nuova fidanzata e vari suoi amici e parenti) fra i boschi dell’Amaseno nei dintorni di Priverno e notammo un cane, chiuso in un recinto, che abbaiava e scodinzolava: aveva un’aria simpatica ma era terribilmente magro.
Doveva essere di qualche pastore o contadino della zona, si capiva che non era abituato a vedere persone.
Ci avvicinammo alla rete e lui venne vicino a noi, scodinzolando, con lo sguardo che dal basso ci guardava e due occhioni che imploravano carezze e cibo: in sostanza tutto quello di cui aveva bisogno.
La mia compagna fece la vocetta gna gna gna, quella che si usa per fare le feste ai cagnolini e mi disse:
“Poverino, credo che abbia famissima”.
Senza indugiare, eroicamente, mi tolsi lo zaino di spalla ed estrassi il panino col prosciutto che mi spettava per pranzo.
Dissi solennemente:
“Gli darò il mio panino!”
Lo scartai e lo lanciai oltre la rete seguito dallo sguardo ammirato e commosso della mia nuova fidanzata.
Il cane si avventò sul panino: con un colpo di naso lo aprì e si mangiò subito il prosciutto con molto, ma molto gusto.
Una volta finito il prosciutto si mangiò il pane.
In quel momento fui investito da una luce accecante simile a quella che illuminò John Belushi nei “Blues Brothers”.
Capii.
Compresi in un istante la filosofia del cane
Era l’esatto opposto della nostra filosofia del “dulcis in fundo” per la quale il pezzo migliore lo lasciamo alla fine, senza calcolare quello che potrebbe succedere prima di arrivare al punto.
Cosa?
Ti può cadere in terra come successe a me,
la tua fidanzata può dire: “Questo è il pezzetto che mi hai lasciato?” e senza attendere risposta gnam gnam, te lo arraffa!
Oppure puoi arrivare a fine cena e non riuscire a mangiarlo per quanto sei pieno.
Non è escluso che potresti anche morire di morte naturale prima di consumarlo, o essere ucciso o arrestato.
I cani, sapendolo, più saggiamente si regolano al contrario, forse cambiano solo le paure: può arrivare un altro cane o un altro animale, può avventarsi improvvisa un’aquila, il cielo potrebbe caderti sulla testa.
Convertito al canesimo da questa folgorazione, sono arrivato ad estremizzare i precetti della mia nuova fede: mangiavo prima la marmellata col burro e poi la fetta biscottata. Ho capito più tardi che in qualsiasi religione non bisogna andare troppo oltre.
Sono tornato quindi indietro di un passo.
Mi sono convertito alla filosofia del cane,
ma senza estremismi, con moderazione,
e la pratico quotidianamente
cercando anche di fare nuovi adepti.
Ora, ad esempio, mi trovo al bar sotto casa. Sento proprio la necessità di un bel caffè.
Mi arriva la tazzina fumante su un bel piattino nero con una bustina di zucchero di canna.
Apro la bustina e verso lo zucchero direttamente nella bocca, lo sgranocchio con passione.
Afferro la tazzina e bevo il mio caldo e aromatico caffè…
amaro…
Nato lo scorso millennio in quel luogo che, anche da Jovanotti, è definito l’ombelico del Mondo, Klaus Troföbien alias Carlo De Santis è ritenuto un vero cultore ed esperto di filosofia e costume degli anni 70/80.
È un ardente tifoso della squadra di calcio della Roma, ma non di questa odierna semiamericana e magari presto cinese, ma di quella di Bruno Conti, Ancellotti, Di Bartolomei, di quella Roma insomma che allo stadio ti teneva 90 minuti in piedi e 15 minuti seduto; è inoltre un collezionista seriale di oggetti vintage che vanno dalle cartoline alle pipe, dalle lamette da barba ai dischi in vinile.
I suoi interessi sono la musica pop rock blues psichedelica anni ’70/’80, la fotografia, la cultura hippie, i viaggi, la moto, il micromondo circostante.
Grazie ad una sua fantasmagorica visione è nata Latina Città Aperta, della quale è il padre, il meccanico e il trovarobe.
Politicamente è stato sempre schierato contro.
Spiritualmente, umilmente, si colloca come seguace di Shakty Yoni, space wisper di Radio Gnome Invisible.
Odia rimanere chiuso nell’ascensore.
Da qui la spiegazione del suo eteronimo.
Un pensiero criticabile ma libero, una mente aperta a 359 gradi.
Ma su quel grado è intransigente.